Michelangelo Guacci nasce a Trani (Ba) nel 1910 ma già nel 1919 la sua famiglia si trasferisce, per motivi di lavoro, a Trieste dove Guacci comincia ad interessarsi all’arte figurativa e si inserisce, durante gli anni di studio presso la Facoltà di Economia e Commercio, nell’ambiente della giovane pittura triestina. Il periodo degli studi universitari è il momento decisivo per la formazione del carattere artistico di “Gui”, come si firma nelle sue prime prove .
Di questa feconda prima fase dell’attività artistica, che va dal 1934 al 1938, rimangono soltanto pochi lavori ma in questi quattro anni all’ artista viene riconosciuta dalla critica il piglio sicuro e quella “vocazione autentica” che poi si confermerà nel corso della non lunga vita.Tra questi primi lavori c’è Madonna, olio del’35, attraverso il quale emerge chiaramente quali siano i modelli a cui Guacci si ispira e con cui si confronta agli esordi della sua carriera; si tratta di una composizione di forma piramidale che si staglia su un paesaggio collinare toscano, dominata dalla figura femminile e vivacizzata dai due putti che giocano al suo fianco. La pittura è qui molto mìaterica e fortemente espressionista.
La scelta figurativista di Guacci non è però da intendere come un adeguamento alla linea imposta dal fascismo ma piuttosto come una soluzione che si rafforzerà, in modo naturale, nel corso degli anni, semplicemente perché la più adatta ad esprimere quella visione ironica, graffiante e al tempo stesso sognante della realtà, peculiare del suo essere.
Questa scelta non fu mai abbandonata. Ancora negli anni ’60 a questo proposito diceva l’artista: “perché tutti fanno oggi l’astratto? Me lo sono chiesto più volte. Ma non vi è niente nel nostro tempo che lo imponga”
Molto differenti da Madonna sono i risultati raggiunti, tra il ’37 e il ’39, con due acquerelli campestri, Contadini e Sul carro; l’impianto compositivo è, infatti, solido ed equilibrato, influenzato forse dalle ricerche primitiviste di Carrà, e colpisce lo splendido effetto di luminosità ottenuto dall’artista grazie alla stesura del colore data per velature sovrapposte.Coeva a queste prove è Mondana, un olio del 1938 che raffigura una figura femminile in abiti succinti che nulla ha di malizioso ma, al contrario, è ricca di umorismo caricaturale nelle disarmoniche e goffe fattezze di questa ragazza di campagna.
Del tutto differente è invece la veduta marina del ’39, Lo squero, in cui si mescolano l’equilibrata composizione e la pennellata gestuale, peculiarità che hanno portato la critica ad individuare come principale matrice di riferimento, per i lavori eseguiti tra il ’40 e il ’53, la pittura settecentesca; in particolar modo quella a piccoli tocchi di colore di Francesco Guardi e quella ad ampie macchie cromatiche e squarci di luce di Giovanni Battista Tiepolo.
Dopo la laurea con una tesi sui banchieri fiorentini del Trecento, nel 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, ottiene l’assunzione alla Banca d’Italia ed è costretto a lasciare Trieste e l’ambiente artistico della sua formazione e affermazione.
Per obblighi di lavoro, Michelangelo Guacci si trasferisce prima a Fiume, per un breve periodo, e poi a Bergamo dove risiede per tredici anni.Una realtà nuova imperiosa e dura caratterizzano questa fase della vita del pittore che trova però nella creazione artistica un motivo di grande gioia e sollievo .
La produzione di quegli anni è molto scarsa anche se significativa. La ricerca di una propria originale strada prosegue e dà pochi ma significativi frutti
Risalgono a questo periodo le prime prove di quella che diventerà la fortunata serie delle giostre, e Ombrelli, olio 1948 .
L’olio su tela Ombrelli del 1948 che risente fortemente della lezione impressionista, (probabilmente influenzato dalla retrospettiva su gli impressionisti proposta da Roberto Longhi all’Esposizione Universale d’Arte di Venezia del 1948) che si esplica qui nella scelta del soggetto e nella costruzione delle forme per volumi geometrici.
Lo stesso vale per un altro olio del medesimo anno, Il fotografo, all’interno del quale le figure, in posa per lo scatto, e l’autore, posto dietro la macchina fotografica, sono unite e mescolate allo sfondo; le pennellate morbide e ondulate, che unificano tutti i piani, conferiscono un accento grottesco alla scena, come avviene anche nel Mercato dello stesso anno e nell’opera Madonna col bambino, e come si ritrova nella celebre “Una moderna Olympia” (1873) di Cèzanne.
Dal dicembre del 1952 può rientrare a Trieste ma, esattamente due anni dopo, è colpito da infarto e, costretto dalla malattia ad una lunga convalescenza, si dedica con rinnovata energia alla pittura e anche allo studio dei grandi artisti internazionali, dell’arte africana, egizia e greca e alla grafica, con particolare interesse per il lavoro del giovane, e prematuramente scomparso, Gianni Russian.
Molteplici sono in questo periodo le composizioni di figure di vario soggetto: Giostra del 1955, Piccola banda del 1958, Conversazione del 1962, che hanno indotto alcuni critici a considerare Guacci come un pittore di costumi.
Si tratta piuttosto, come rileva Decio Gioseffi, di tematiche di matrice letteraria, come dimostra il fatto che le stesse siano presenti nel repertorio di molti artisti del ‘900.
Un olio straordinario ed esemplare del tipo di ricerca condotta dal Guacci è Salotto del 1955 una composizione con sette figure sedute le cui fisionomie dei volti e i panneggi degli abiti sono espressivamente marcate da un segno che graffia la superficie e che carica la realtà di ironia come accade nelle illustrazioni della stampa satirica del periodo.
L’interazione tra la pittura e la grafica è foriera di ottimi lavori quali Pioggia del 1956, all’interno del quale le figure stilizzate e gli ombrelli perdono fisicità a contatto con lo sfondo trasformandosi in puro pattern astratto.
Nei due Nudi ad acquerello Guacci gioca ancora con intento umoristico con i caratteri fisici dei soggetti femminili attraverso la sapiente combinazione delle velature di colore sulla carta e di segni neri a marcare i contorni.
Il 1957 è l’anno della sua prima mostra personale che ha luogo nella Sala Comunale d’Arte di Trieste; l’anno successivo organizza un’esposizione dell’opera grafica insieme all’amico Zenari alla Galleria Parovel di Trieste.
Guardando gli oli, Bagnanti e Il violoncello del 1954, Il tappeto e Ballerina del 1956, e i monotipi del periodo, quali Modella e Lettera d’amore del 1956, si manifesta chiaramente il processo di schematizzazione cui il pittore sottopone i suoi soggetti, l’indurimento dei profili, la rarefazione degli elementi decorativi e l’ispessimento, negli oli, della superficie pittorica con il raggiungimento di risultati sempre più radicali e originali come si può vedere anche in Guerrieri antichi del 1962 e Dame al caffè del 1959.
Scomparse quasi del tutto le strutture portanti del quadro Guacci affida tutta la forza espressiva al segno, distribuendo il colore per ampie pezzature, infondendo cosÏ alle sue opere un forte valore evocativo.
Continua intanto l’attività espositiva con una rassegna della produzione di carattere sacro alla Galleria dei Rettori di Trieste, in coppia con Zenari, nel 1961 e, l’anno successivo, un’altra personale alla Galleria Nerea di Udine.
Anche le opere di carattere sacro, come Deposizione, monotipo del 1960, si distinguono per il carattere espressionista e per il raffinato dosaggio di luci e ombre; in questo gruppo di lavori le sagome delle figure sono alternativamente morbide e flessuose o rigide e spigolose
Il 1964 è un anno ricco di cambiamenti importanti.
Invitato dal pittore Edoardo Devetta è tra i fondatori della Galleria “La Bora” di via Malcanton a Trieste, assieme al trevigiano Nando Coletti, a Renato Daneo, Tiziana Fantini , Livio Rosignano, Marino Sormani.
La galleria viene inaugurata in giugno: artisti triestini e friulani e veneti, per rompere ogni forma di campanilismo, accomunati dal considerare reciprocamente alte e significative le direzioni di ricerca di ciascuno: oltre ai fondatori, espongono in quell’occasione anche De Cillia, Spacal, Walcher, Zigaina e vi è un’opera di Mascherini.
In questo stesso periodo ottiene, per il suo stato di salute ancora incerto, il pensionamento anticipato e può dunque dedicarsi a tempo pieno all’arte riuscendo ad organizzare, in novembre, la sua seconda personale nella Sala Comunale della sua città.
Da questo momento fino alla sua morte, nel 1967, Guacci realizza la maggior parte delle opere per le quali è diventato famoso nella sua regione e grazie alle quali stava per diventarlo anche a livello nazionale ( notata e apprezzata una sua opera esposta in una mostra collettiva da Maurizio Calvesi che lo segnala in un articolo su “Le Arti”, interessato all’autore la galleria Gian Ferrari di Milano ).
L’artista continua a confrontarsi con nuovi temi e a sperimentare liberamente.
La caratteristica predominante di questo ultimo e fecondissimo periodo è una straordinaria convergenza dei generi e delle tecniche che è evidente in alcune nature morte come Rosolacci del 1965 nelle quali il pittore raggiunge eccezionali risultati di trasparenza del colore e di evanescenza degli oggetti rappresentati.
In altre prove come Pappagalletti del ’65 e Carabiniere seduto del ’66, rispettivamente un olio del 1965 e un’acquaforte del 1966, l’artista sembra giungere a esiti quasi astratti: l’introduzione dei punti come elemento espressivo e decorativo e la riduzione dei volumi in forme geometriche semplici, trasformano il carabiniere rendendolo simile a una figura stampata sulle carte da gioco.
Guacci in questo periodo è mosso da un forte bisogno di raggiungere la perfezione stilistica e in particolar modo nella tecnica ad olio; molti quadri eseguiti con questa tecnica sono in realtà il frutto di stratificazioni di pigmento successive che testimoniano i continui ripensamenti e la spasmodica ricerca della finitezza come nel magnifico e raffinato Pagliaccio con flauto del 1965.
Dal 1966 l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche lo costringono a letto per cui deve limitare l’uso, da lui prediletto, dei colori ad olio e l’approccio a delle tele di grande formato: eppure riesce a trovare un suo linguaggio nuovo proprio con questa tecnica dell’olio che tanto lo aveva impegnato e appassionato nella sua vita di artista: vediamo Farfalle del 1965, Nozze, Banda viola del 1966.
Infatti ha lasciato nel ’66 una serie di preziose opere che mostrano nuovo slancio e libertà tecnica e inventiva rinnovata: eccezionali risultati della ricerca cromatica facevano attendere sviluppi rigogliosi dell’immaginazione.
Invece la malattia nel 1967 imporrà una magnifica stagione creativa ma che si compone quasi esclusivamente di acquerelli e disegni acquerellati.
I soggetti rimangono quelli cari al pittore come le farfalle, i cavalieri, le varie composizioni di figure, ma lo stile si fa più diretto e spontaneo.
Sono lavori come Clarinetti del ’67 e Ultime notizie, dello stesso anno, nelle quali ciò che più colpisce è l’immediatezza della pittura e l’ironia graffiante che da questo stile emerge con ancora più vigore.
La capacità di fissare l’attimo che fugge, di realizzare istantanee di immensa poeticità è potenziata da queste ampie pennellate ad acquerello su cui il segno nero e vibrante si modula caricando l’immagine di espressività come in Grande banda e in Giostra, e si alterna a disegni e schizzi di estrema sintesi espressiva, quali Maschere,
Donna di schiena e Conversazione.
Per chiudere con le parole di Decio Gioseffi (1971), diremo che Michelangelo Guacci stesso considerava l’ironia l’unica soluzione praticabile nell’approccio alla vita.
“Noi viviamo in un’età di transizione e, come in tutte le età di transizione, non c’è salvezza che nell’ironia.”
Emblematico di questo atteggiamento è uno degli ultimi oli che raffigura Bacco, dio del vino, dall’espressione sognante e beffarda, “che ci piace considerare come il congedo dalla vita di questo uomo e artista intelligente e sensibile”

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